Antigone 4. Il tragico Novecento

La tragedia inattuale: così titolava una ricerca della prof.ssa Annamaria Cascetta (Università Cattolica di Milano) in via di svolgimento mentre frequentavo come studente curioso – ma già totalmente disordinato – le lezioni di drammaturgia teorica. Ora l’esito maturo di quell’indagine sulle letture novecentesche del tragico è raccolta nel bel volume La tragedia nel teatro del NovecentoL’assunto principale: «Se il senso del tragico è una struttura permanente della coscienza umana, la tragedia è una forma in cui quella struttura storicamente si è tradotta. Sono stati la drammaturgia e la scena ad accoglierla e a esprimerla». Dunque, l’Antigone di Sofocle e le altre tragedie costituiscono la modalità con cui è possibile rappresentare nel tempo la misteriosa consapevolezza – che ciascuno di noi possiede intimamente – che l’esistenza umana sia essenzialmente incomprensibile, che ci sia una sorta di destino, una forza superiore, capace di opporsi inesorabilmente a tutti i nostri progetti e che sia inevitabile affrontare momenti di conflitto e di dolore “assoluti”.

C’è chi sostiene che la tragedia sia morta. Per Nietzsche gli assassini sarebbero Socrate, Euripide e il loro razionalismo. Per Steiner il colpevole è l’Illuminismo, sempre per via della critica razionale della dimensione trascendente e misteriosa dell’esistenza. Parrebbe quindi che il tragico, in fondo, sia un “sentimento” – emotivo e irrazionale – destinato a svanire di fronte all’analisi logica. Ma, a conferma della natura universale del tragico e come testimonia il teatro del Novecento, la tragedia è tutt’altro che defunta. Anzi.

Da una parte le tragedie greche rimaste – come abbiamo visto – non smettono di essere occasione di infinite traduzioni, riletture e messinscene (come quella che andremo a vedere e che è causa di questi post). Dall’altra parte, nel Novecento il mito che ne sta all’origine diventa materia di nuove e affascinanti riscritture.

Durante l’occupazione nazista di Parigi, Jean Anouilh compone e mette in scena un’Antigone che – pur mantenendo la struttura sofoclea nelle sue linee generali – ne stravolge completamente i significati (qui il testo francese e qui una suggestiva traduzione italiana del 1955 per il suggeritore dello Stabile di Torino). Una giovane e dubbiosa Antigone non oppone la morale divina alle leggi umane, ma semplicemente – e tuttavia in modo ancora più radicale – si ribella al potere dello Stato, rappresentato dallo zio Creonte, uomo pragmatico e anche disposto a lasciar correre l’ostinata presa di posizione della nipote. Dalla divina all’umana tragedia.

Una volta tornato nella comunista Germania dell’Est, Bertold Brecht riscrive l’Antigone fin dalle prime didascalie: “Berlino. Aprile 1945. È l’alba. Due sorelle escono dal rifugio antiaereo per far ritorno alla loro abitazione” (qui il copione in italiano). La tragedia mondiale si è effettivamente consumata qualche anno prima, devastando la materia e lo spirito dell’umanità, lasciando milioni di fratelli da seppellire. Creonte è un Hitler. Antigone rappresenta il tentativo di elaborare collettivamente il lutto del nazismo, attraverso la ribellione simbolica e lo smascheramento del potere dispotico. È interessante segnalare che Brecht usa il tedesco di Hölderlin per evitare di utilizzare una lingua recentemente “contaminata” dal nazismo, tentando così di richiamare in vita quella splendida – ma fragilissima – civiltà germanica di Otto-Novecento.

Quando frequentavo disordinatamente il laboratorio di teatro nel sotterraneo dell’Università Cattolica, capitava di trovarsi inaspettatamente di fronte a strani personaggi che – dopo qualche parola – davano vita a surreali ma straordinari laboratori pratici di drammaturgia (lo straordinario era soprattutto che si rivolgessero con naturalezza ed entusiasmo a una ventina di studenti inesperti, non ad una compagnia di attori seri). Uno di questi personaggi al limite della follia fu Judith Malina. Quando “recitai” con lei non avevo idea di chi fosse – non c’era Google a cui chiedere. La fondatrice del Living Theatre – progetto collettivo di teatro politico di strada, centrato su performance che provocano e coinvolgono direttamente il pubblico – aveva ripreso negli anni Settanta il testo di Brecht e ne aveva dato una versione geniale. Impossibile da descrivere, è da vedere (resistere almeno fino al minuto 10, poi mi dite).

Ma il Novecento non è solo il secolo del rinnovamento teatrale, è anche il secolo del cinema. Pertanto, tra le molte possibili scelte, segnalo due film che si richiamano esplicitamente al mito di Antigone. Il primo è Katyn del polacco Anton Wayda (qui su YouTube), che racconta del massacro di 22mila polacchi per opera della polizia segreta sovietica dal punto di vista delle donne che attendono invano il ritorno dei mariti o che sperano di poter dare sepoltura ai fratelli. Il film è l’occasione per scoprire una tragedia a lungo dimenticata.

Il secondo film è I Cannibali  di Liliana Cavani (Intervista alla Cavani). In una Milano del 1969 (impressionante vedere la metropolitana linea rossa così come l’ho conosciuta la prima volta), le strade sono coperte di cadaveri che il Potere vieta di seppellire. I due giovani Antigone e Tiresia si ribellano, mostrando quanto lo Stato abbia ormai cancellato la vera natura dell’uomo. La loro non sarà una morte vana. Musiche di Morricone. Per chi ha molta fretta, un’occhiata allo shoccante minuto 11. 

 



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Mi appunto un filone di ricerca molto interessante. Richiama, in un certo senso, la linea neurodidattica di P.C.Rivoltella e in generale l’idea di una neuroestetica. Confrontarsi con le acquisizioni della scienza – anche in ambito delle humanities – è una priorità per chi studia l’universo dell’immaginario simbolico.

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Nel corso degli ultimi due decenni alcune scoperte avvenute nell’ambito delle neuroscienze cognitive hanno permeato le humanities e le scienze sociali – fra queste anche gli studi sui media e in particolare gli audiovisivi. Le ricerche sui meccanismi di rispecchiamento neurale, sull’empatia e sulla cosiddetta “simulazione incarnata” costituiscono oggi le premesse culturali e i fondamenti teorici di un approccio innovativo (anche se non affatto inedito in quanto derivante almeno dalla stagione “storica” della Filmologia) allo studio dell’esperienza mediale, a cavallo tra scienze della mente ed estetica.

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Zero Dark Thirty (di Kathryn Bigelow)

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Inno alla tenacia femminile, spietata in un mondo spietato (dove anche i buoni – gli Americani – sono molto cattivi).

Un grande film che utilizza documenti e testimonianze della CIA per ricostruire dall’interno la lunga caccia a Bin Laden, fino alla notte della sua uccisione – a dieci anni dall’11 settembre -, realizzata grazie alle difficili indagini (e alle torture) dell’agente Maya (Jessica Chastain).

Alcune brevi riflessioni a partire da questo film del 2013:

– Bin Laden è morto nel 2011, la vendetta degli USA si è compiuta, ma la guerra continua tuttora in altre forme e in modo forse ancora più crudele e destabilizzante. Siamo in guerra, lo siamo sempre stati, lo saremo ancora a lungo se alla violenza si risponde con la violenza, come continuiamo a fare – tutti indistintamente;

– con questo film (e con altri simili), gli USA da una parte riconoscono di aver utilizzato metodi criminali per fronteggiare la crisi post-TwinTowers, ma contemporaneamente elaborano velocemente il lutto, giustificando immediatamente i mezzi utilizzati con il criticabile motivo della giustizia a qualsiasi costo (che io chiamo vendetta);

– il cinema si conferma così essere il luogo fondamentale in cui la cultura postmoderna – in assenza di feste dionisiache in cui convocare l’intera città a teatro – mette in scena la propria storia, i dubbi e le ossessioni più brucianti, i drammi e i percorsi di catarsi collettiva;

– amo immergermi in un film – come è successo in questo caso – senza saperne davvero nulla, soltanto il nome della Bigelow di cui avevo visto Strange Days molti anni fa. Scoprire d’un tratto che la narrazione si stava muovendo verso la storica uccisione di Bin Laden ha dato un senso alla serata casalinga.